I testi e le immagini di questa pagina sono protetti dalle leggi italiane ed internazionali sul diritto d'autore. Ogni riproduzione, traduzione o adattamento sono proibiti senza l'espressa autorizzazione scritta dell'Autore.
Copyright
Brusegan Maria Grazia

RICORDI BOLIVIANI
Basta poco per mettere in moto il meccanismo dei ricordi.
Una luce, un colore, un orizzonte, ed ecco spalancarsi la finestra...della nostalgia?

 

 


Domenica, Monte Sperone: luminosità nitida e secca delle giornate invernali, colore uniforme dell'erba bruciata dal gelo, lontani i picchi innevati dell'Alpago, sotto di noi Belluno.
Tutto è diverso, i nomi, le dimensioni, le quote, la familiarità. Eppure tutto mi riporta ai "miei" paesaggi Boliviani.
La Paz. Quota 3500 metri, la capitale più alta del mondo; più o meno è come stare in cima alla Marmolada: il respiro si fa difficile, lo sforzo fa ansimare.
Se si arriva dalla puna, dall'altopiano, ad un certo punto ci si affaccia sul bordo del canyon dove La Paz è riparata, distesa, dilagata, spettacolare. In fondo, bene in vista l'Illimani (6322 mt); più in là, ben oltre il nostro orizzonte, l'Amazzonia.
La città "che conta" è nel fondo della valle, lì svettano o troneggiano i palazzi del potere, della politica e dell'economia. Da quel centro i quartieri si allargano, si espandono, risalgono i fianchi terrosi della conca. I palazzi diventano sempre più sobri ed anonimi, si abbassano, si fanno case con i tetti a terrazza, poi baracche coperte da una lamiera. La in alto tutto ha il colore della terra; poco verde, qua e la spiccano rari eucalipti.
Le strade, acciottolate, diventano ripide e arrampicandosi si restringono. Sono seguite, rincorse, attraversate da una intricatissima rete di fili elettrici su cui la luce del tramonto scintilla zigzagante.
Nel centro, i giardinetti e le vie sono vivacemente abitate: lucidascarpe, venditori di gelati e fotografi ambulanti, donne - con la bombetta alta sulla testa , lunghe trecce nere ed ampie gonne - vendono piccole quantità di frutta, verdura o carne o bibite e sarti, con relativa macchina da cucire.
Ricordo volti intensi, seri, carichi di attesa o di delusione? Rari i sorrisi.
Il mercato è il luogo dei colori. Maglioni e tappeti vivacissimi. Frutta e verdura, disposta in ordinati mucchietti piramidali. Barattoli e confezioni, sistemati nei ripiani con cura e con piacevoli effetti cromatici.
E' qui che faremo le scorte prima di uscire dalla città.
Ci dirigiamo verso l'altopiano, una vastità di colore marrone giallastro; verso montagne spoglie con le cime perennemente nevose; verso un lago grande come un "piccolo mare"; verso un tempio sperduto nella puna.
Per incominciare, la Valle della Luna, una miriade di pinnacoli di terra, più o meno grandi, formati per effetto dell'erosione.
Poi il lago Titicaca,
che dopo tanta aridità è una vera sorpresa. Anche in questo caso un primato: è il più grande lago dell'America meridionale. Straordinariamente turchino, un formidabile contrasto con l'ocra della terra. Anche il ricordo gastronomico è ancora intatto, la trucha del lago Titicaca è la trota più buona mai mangiata finora.
Sulle rive, capanne ombreggiate da vigorosi eucalipti,

donne intente a fare il bucato in compagnia dei loro bimbi più piccoli, pecore,

 

 


un pescatore sulla totora
(tipica imbarcazione di cannuccia palustre).

 

Con una barca raggiungiamo l'Isola del Sole nel bel mezzo del lago. Un posto bellissimo e così speciale che sia gli Aymara che gli Inca lo ritennero un posto sacro adatto alla preghiera.

Tra una meta e l'altra, la puna, un enorme tavolato erboso, interrotto solo da piccoli rilievi dalla cui sommità si coglie maggiormente l'enorme spazio, apparentemente disabitato. La pista corre dritta, con leggere curve, in lontananza una nuvola di polvere anticipa l'arrivo di un veicolo. Lungo il percorso gli incontri sono rari: un pastore con alcuni lama, una donna che spinge una bicicletta su per la collina, case remote, costruzioni semi diroccate utili però per ripararsi dal vento che, privo di barriere, scorrazza in lungo e in largo. Sperduti villaggi con chiesa spagnoleggiante, poche case, un bazar, apparizioni furtive di qualche donna con l'immancabile bambino portato in spalla, un cane, sole, vento e un favoloso cielo azzurro.


Spazio, solitudine, silenzio qui hanno un fascino potentissimo esaltato all'orizzonte dalla Cordillera Real da cui risaltano il possente Huayana Potosi (6094 mt) e l'esile Condoriri (5656 mt).
     
A Tiahuanaco, già carichi di emozione, la suggestione va alle stelle: Kalasasaya dalle mura perfettamente squadrate con un perimetro di 128x118 metri, il tempio sotterraneo con la teste incastonate nelle pareti e varie steli scolpite, le monolitiche statue raffiguranti uomini stilizzati, la mitica Porta del Sole (umiliata da un assurdo recinto di rete metallica) ricavata in un unico blocco di ardesite (metri 2,73x3.84x0,50). La Porta del Sole è ornata da varie sculture tra cui il famoso "sole piangente" che tanto influenzò l'arte e la religione peruviana.
La Porta della Luna irreale e affascinante.
Tiahuanaco, espressione della civiltà Aymara, risale al 600-900 d.C., in quell'epoca si estendeva su 420 ettari, quello che rimane è una piccolissima parte. Tutti gli edifici popolari costruiti in adobe (mattoni seccati al sole) si sono disgregati. Hanno resistito al tempo gli edifici più importanti civili e religiosi, costruiti in solida pietra, non reperibile nelle vicinanze ma fatta arrivare da lontano: Titicaca, Poopo, Cochabamba.

Un brivido di freddo interrompe il percorso dei ricordi. Anche qui il vento sa essere penetrante e gelido, soprattutto se si è su un cocuzzolo in un inoltrato pomeriggio invernale. Per un attimo ancora, a occhi chiusi, rincorro le ultime immagini che solo i poeti sanno dire in poche parole........

Prima della parrucca e della giubba
furono i fiumi, i fiumi arteriali:
furono le cordigliere, sulle cui vette ròse
il condor o la neve apparivano immobili:
fu l'umidità e la selva, il tuono
ancora senza nome, le pampas planetarie.
..............

Amore America (1400) Pablo Neruda